Questa è una storia epica! Sì, lo so, penserete: “sta esagerando!”. Tuttavia, questa volta è successa una cosa che non ho intenzione di passare sotto silenzio. Andiamo per ordine. “A long time ago in a galaxy far, far away…” un Assessore volle a tutti i costi far passare una “riforma” che, nelle sue intenzioni, sarebbe dovuta passare alla storia. I suoi efficientissimi uffici possono fare una fotografia precisa dei malati del suo territorio. Grazie al lavoro certosino svolto nel passato, si sa quanti si ammaleranno di una data patologia ogni anno. Si sa anche (più o meno) quali sarebbero gli esami e le cure che la letteratura internazionale prescrive per quelle date patologie croniche ed anche quelli eseguiti in media dai pazienti negli anni precedenti. Si conosce anche la spesa sostenuta nel passato e di quanto si potrebbe contrarre se tutto il processo fosse governato a dovere. Allora che ti pensano i funzionari? Se noi troviamo il modo di far andare i nuovi e i vecchi pazienti cronici quasi sempre nello stesso posto e gli prenotiamo già prima gli esami che devono eseguire, il paziente si consegna mani e piedi al nostro sistema, fa solo quello che noi gli diciamo ed è pure contento. Se poi il malato vuole deviare dalla retta via decisa per lui dalla regione, si farà una bella assicurazione privata e con quella potrà avere tutto ciò che vuole. Tuttavia, un Ordine dei Medici (quello di Milano) si oppone: le ragioni sono tante. La principale è che non pare logico affidare il paziente a due Curanti: uno ospedaliero e uno sul territorio. Inoltre, non è bene irrigidire il percorso di cura dentro i rigidi binari del “set di riferimento” cioè degli esami che qualcun altro ha deciso essere i più appropriati per il paziente stesso. Dipoi, il processo di cura va valutato con un metro che, neanche lontanamente, faccia riferimento al budget. Infine, come faranno gli ospedali a prendersi in carico i pazienti cronici se li si è impoveriti di personale e si preferisce prendere medici precari piuttosto che assumerli? Già sono in sofferenza e non ce la fanno a coprire il carico assistenziale a loro affidato, come faranno ad acquisire nuovi pazienti, stilare i piani individuali, fare ricette anche nella prosecuzione delle cure, dare appuntamenti, gestire quotidianamente tutte le cronicità? Dalla società civile si levano una marea di critiche, tutte nello stesso senso evidenziato e illustrato dall’Ordine di Milano. Alla fine, a poco a poco, anche i sindacati medici e non, anche le associazioni di pazienti e gli altri Ordini dei Medici: tutti si accorgono che qualcosa non va. L’Assessore si arrabbia e arriva a sperare (sulla stampa) che, nelle elezioni ordinistiche milanesi, vinca chi viene giudicato più malleabile e meno rompiscatole. Nel frattempo, ovunque, ma soprattutto a Milano, le adesioni dei medici sono piuttosto scarse, ma, soprattutto, sono scarsissime le adesioni dei pazienti. I quali non vedono di buon occhio perdere la loro libertà di scelta per qualche appuntamento fissato e qualche coda saltata, non vedono di buon occhio firmare un contratto detto “patto di cura” che li vincola per almeno un anno e non vedono di buon occhio “tradire” i loro medici di famiglia, che hanno scelto, e con i quali spesso sussiste un rapporto costruito nel tempo. Ecco, a questo punto capita l’impossibile e l’inaudito (nel senso di mai udito prima). I medici (del territorio e dell’ospedale) sono stati in gran parte solidali nel formulare critiche; e allora l’Assessore cambia idea (deve cambiare idea) e sigla con la Federazione Regionale degli Ordini un documento che non solo riscrive la maggior parte delle cose più sopra elencate, ma addirittura, proprio su richiesta dell’Ordine “rompiscatole”, sancisce che d’ora in poi le misure relative all’organizzazione sanitaria si dovranno almeno discutere prima con gli Ordini dei Medici della regione. Tutto risolto, quindi? È scoppiata la pace? Niente affatto. Bisognerà vedere tante cose: se quanto è stato siglato verrà poi rispettato dalla delibera di Giunta “condenda”, se la collaborazione futura sarà davvero rispettosa di tutte le posizioni, se tutti si comporteranno con correttezza e trasparenza. Inoltre, dal punto di vista dei pazienti cronici, bisognerà vedere se, pur con queste modifiche, la “riforma” sarà gradita alla gente poiché, comunque, permane una certa limitazione del diritto alla libera scelta delle cure che, per questa Regione, nel passato, era una vera e propria bandiera. Chi vi scrive, quindi, non è contento tanto per i risultati raggiunti, ma piuttosto per il fatto che la categoria è stata sufficientemente unita. Conseguentemente, il messaggio che è passato, spero, sia entrato nella testa degli amministratori e dei politici: NON si possono fare le riforme senza i medici e i pazienti. Solo dopo averli consultati, sia soprattutto tramite gli Ordini, ma anche attraverso le rappresentanze di categoria e averne acquisito il consenso si può pensare di fare riforme. In Sanità anche le più piccole e (apparentemente) innocue innovazioni possono avere conseguenze nefaste. Gli unici che possono prevederlo, a ragione, sono coloro che tutti i giorni si chinano verso chi sta male, poiché le persone non sono numeri, le malattie, quando si calano nella carne, non sono concetti gnoseologici e la sofferenza necessita di un Medico per essere intuita e interpretata. Speriamo sia un messaggio che non si dimentichi!
“Finally, to hinder the description of illness in literature, there is the poverty of the language. English, which can express the thoughts of Hamlet and the tragedy of Lear, has no words for the shiver and the headache. It has all grown one way. The merest schoolgirl, when she falls in love, has Shakespeare or Keats to speak her mind for her; but let a sufferer try to describe a pain in his head to a doctor and language at once runs dry. There is nothing ready made for him. He is forced to coin words himself, and, taking his pain in one hand, and a lump of pure sound in the other (as perhaps the people of Babel did in the beginning), so to crush them together that a brand new word in the end drops out. Probably it will be something laughable.”
Virginia Woolf, On Being Ill