La neo-ministro e collega dott.ssa Giulia Grillo, sul proprio blog, ha diffuso alcune dichiarazioni nelle quali si correlano le liste di attesa con la mancanza di controlli (o presunta tale) sull’attività intramoenia dei medici ospedalieri. Alle dichiarazioni è seguita una prima circolare ministeriale con l’intento di chiedere urgenti e puntuali informazioni alle Regioni. Tralasciamo ora di analizzare la (falsa) correlazione tra liste di attesa e libera professione. Vorrei invece focalizzare queste righe sul fatto che le incompatibilità e le limitazioni alla libera professione sono sorelle e figlie di un piccolo mondo antico che non esiste più. Sono vecchi strumenti (ideologici) del passato che, in un futuro molto prossimo, sarà ben difficile, se non impossibile, mantenere. Sì, lo so, sto attaccando un moloch, un tabù per molti intoccabile. Ma io ne parlo lo stesso, perché credo fermamente che sia giunto il momento di rimettere in discussione questo concetto, visti i tempi.
Cominciamo a dire che, nell’attualità, le incompatibilità sono ferree. Chi fa il medico ospedaliero in strutture accreditate non può fare il medico di famiglia, d’accordo. E viceversa. Ma i medici di medicina generale non possono fare attività privata se non a certe condizioni e i dirigenti medici sono ingabbiati nelle pastoie dell’intramoenia (che, abbiamo visto, si vorrebbe ulteriormente limitare). Il controllo è occhiuto. Le forze di polizia attuano una puntuale sorveglianza sulle attività svolte dal personale medico. Attività che, nell’era dell’informatica e della trasparenza, sono molto facilmente rintracciabili anche senza attuare investigazioni complesse. Fioccano verbali, denunce, provvedimenti disciplinari. Tutto giusto, per carità: la legge si rispetta senza se e senza ma. Tuttavia, io sostengo che è ora di cambiare. La stessa cosa dicasi per l’attività intramoenia dei Dirigenti Medici. È sottoposta ad una serie di vincoli. Il più iniquo è quello economico. Di cento euro che vengono chiesti al paziente, tolto ciò che deve essere dato alla struttura e le tasse, il professionista incassa una percentuale talmente minima da essere del tutto mortificante e disincentivante.
Come si è arrivati alla situazione odierna? Vediamo che cosa è successo in questi anni. Non farò un lungo excursus storico puntuale e preciso, ma rapido, rapsodico e soprattutto basato su alcuni ricordi personali di medico figlio di medico.
All’inizio dei tempi c’era un sistema mutualistico che funzionava molto bene ma creava diverse disuguaglianze. Mi ricordo la borsa di papà (medico di famiglia) piena di multicolori ricettari che andavano timbrati (per ogni timbro apposto, io prendevo un soldino…). Alcuni pazienti avevano prestazioni “full optional”, altri meno e anche i medici venivano pagati differentemente a seconda se fossero convenzionati con questa o quella “mutua”. Nessuno si poneva il problema delle incompatibilità. Anzi, la domanda “signor dottore, in quale ospedale lavora” era abbastanza ricorrente (all’epoca si premetteva sempre il “signor” a “dottore”). La gente voleva sapere, in caso di bisogno, dove lavorava il proprio medico. Il tanto ricercato legame ospedale-territorio era nei fatti. Poi venne il grandissimo Albertone nazionale con l’impersonificazione (deleteria) del dott. Tersilli. Il film, per la verità, ritrae ancora il tempo delle mutue, essendo della fine degli anni sessanta. Tuttavia, i suoi effetti li proietta soprattutto sul nuovo Servizio Nazionale, dove tanti, tanti mutuati corrispondevano a tanti, tanti denari e dove il medico plurimassimalista era dipinto come colui che dispensava medicine e accertamenti clinici inutili. Tutti vennero del parere che bisognasse limitare il massimale dei medici di famiglia e che se il medico lavorava in ospedale poteva lavorare sul territorio solo a determinate condizioni e con diverse limitazioni.
Ma gli attacchi alla figura professionale del medico, dipinto unicamente come accaparratore senza scrupolo di denaro, si acuirono ulteriormente durante gli anni ottanta, mentre stavo studiando medicina. Mi ricordo un Ministro De Lorenzo scatenato contro coloro che lavorano al mattino per l’ospedale e al pomeriggio per la “concorrenza”. Tuttavia, le limitazioni imposte da De Lorenzo all’attività libero professionale dei Medici furono nulla in confronto all’attacco subito dai medici a cura dell’onorevole Rosy Bindi. Ministro della Sanità dal 1996 al 2000, introdusse la famigerata “229” e portò avanti un’idea di medico del SSN totalmente legato a esso. Mi ricordo con amarezza i resoconti delle mortificanti trattative per il rinnovo della convenzione dei medici di famiglia e le discese in piazza per difendere la libertà dei medici ospedalieri di poter ancora praticare una libera professione degna di questo nome.
Oggi, lo si è detto, le incompatibilità sono ferree e la libera professione è molto limitata, è quasi un regalo che il medico dipendente fa alla propria struttura. Tuttavia, è probabilmente arrivato il momento di cambiare. Innanzitutto, l’elemento demografico e l’elemento sociale stanno facendo sì che la professione medica si impoverisca anche in senso numerico. Ovverosia, alcuni lavori non sono più appetibili e, oltretutto, non ci sono i numeri sufficienti per coprire tutti i posti in quanto non si sono preparati abbastanza medici e non si è fatto fronte all’uscita dalla professione di enormi coorti di colleghi che, per ragioni puramente anagrafiche, stanno andando e andranno in pensione nei prossimi anni. In questa situazione, tenere in piedi un sistema rigido di incompatibilità e limitazioni della libera professione appare del tutto anacronistico e, soprattutto, difficile da realizzare. Tuttavia,la ragione principale per la quale il sistema attuale è destinato a cambiare è probabilmente un’altra. Innanzitutto, di soppiatto, si sta facendo strada il Welfare aziendale. Invece che dare aumenti, si dà ai lavoratori la possibilità di avere dei benefit di tipo sanitario e usufruire di mutue parallele al SSN. Questo, di fatto, sta creando un sistema sanitario privato diffuso e fiorente. Dopo i primi periodi di accaparramento della clientela, però, il rischio è di andare verso un sistema simile a quello statunitense, dove se lavori e guadagni bene ti puoi ammalare, e sennò è meglio che rimani sano! Infine, alcune Regioni, con in testa la Lombardia, stanno (purtroppo) cercando di budgetizzare l’assistenza al cronico. Se il progetto dovesse riuscire, verrebbero concesse solo una certa serie di prestazioni e per il resto, per stessa ammissione di chi ci amministra, ci sono le assicurazioni private. Non è questa la sede per analizzare in profondità questi fenomeni. Tuttavia, tutti questi segnali ci indicano, almeno a mio parere, che il medico del futuro dovrà muoversi su più piazze e su più realtà per sbarcare il lunario. Pertanto, la visione di un medico legato indissolubilmente e unicamente a un unico rapporto con il SSN dovrebbe essere profondamente rivista. Peraltro, ricordo anche che, in alcuni Paesi (molto civili) del mondo, se un ente o un’istituzione qualsivoglia vuole che un determinato professionista di chiara fama lavori in esclusiva per sé, si rende anche disponibile a contrattualizzare tale richiesta!